Sanda Cordoş
Babes-Bolyai University, Cluj-Napoca, Romania
La Romania nomade nella prosa postcomunista
Abstract:This work focuses on the phenomena of exile and emigration as reflected in Romanian literature after 1990. It explores two directions: the fiction literature that presents the Romanian emigration in Post-communism, most often seen as an escape from the “doomed homeland”, and the non-fiction genre of memoirs written by Romanian writers that had left Romania before the fall of Communism. In these memoirs the return to the natal country appears as a ”last voyage”, a death voyage, to a bizarre, tormented and futile world. Adrian Otoiu, Florina Ilis, Petru Babru, Dumitru Tepeneag are authors used as samples for the first series of texts, Norman Manea, Gabriela Melinescu, Matei Calinescu, Sanda Golopentia, Constantin Eretescu, for the second.
Keywords: Romania, Post-communism, exile, emigration, loneliness, anguish.
Fenomeno importante del mondo contemporaneo (secondo un rapporto ONU, ogni trentaquinta persona del mondo è migrante), la migrazione si è istituzionalizzata, viene amministrata dagli organismi governamentali e internazionali e viene protetta dalle leggi. L’Assemblea Generale dell’ONU ha dichiarato (per una decisione adotatta il 4 dicembre 2000) il 18 dicembre il Giorno Internazionale dei Migranti[1], e la Comissione Europea ha chiamato il 2000 l’Anno Europeo delle Mobilità dei Lavoratori, decisione che mira “all’incremento del grado della presa di coscienza e della comprensione dei benefici del lavoro all’estero”[2]. Per la Romania, la quale partecipa ampiamente a questo fenomeno[3], la migrazione non è solamente una tendenza di rendere mondiale e redditizia la forza lavorativa, ma anche parte di un processo dell’identità assai più complesso il quale coinvolge un’intera mentalità collettiva. In quanto leva economica, la migrazione è anche un mezzo per il quale la Romania esce dalla geografia del filo spinato (ristretto e controllato) e dal profondo della storia (inevitabilmente chiusi) in cui l’aveva collocata il regime comunista per riconquistare le coordinate geografiche planetarie e, in stretta interdipendenza, il senso dell’attualità. Se pensiamo al periodo dopo il 1990, le tappe (i partecipanti, le caratteristiche e gli scopi) di questo fenomeno sono, ovviamente, diverse, a partire dalla deambulazione dei primi anni post-rivoluzionari per arrivare alla migrazione strutturata e positiva[4] degli ultimi anni. Anche se si può notare un miglioramento e un raccordo alla normalità delle direzioni internazionali, la migrazione romena ha, a partire dal 1990 e, in modo un po’ più sfumato, fino ad oggi, una dimensione del nomadismo, cioè – secondo i sociologi Serge Moscovici e Juan Antonio Perez – presenta le pratiche della provvisorietà e la difficoltà di stabilire delle relazioni sociali stabili. Secondo i suddetti autori, „Une personne nomade représente une espèce d’atome social isolé”[5].
È proprio questo aspetto della provvisorietà, generatore di certi stati di disagio, inadattabilità oppure trauma (ma, probabilmente, anche il sostanziale potenziale epico), a rendere il nomadismo un importante tema della prosa romena postcomunista, tanto nelle opere di finzione, quanto in quelle autobiografiche. L’interesse per la condizione del nomade e per la problematica della peregrinazione accomuna scrittori di varie generazioni, con variate opzioni e modalità artistiche, si ritrovano anche gli scrittori che abitano nel paese (e che sognano oppure cercano di partire) insieme a quelli che, vivendo all’estero, desidererebbero oppure provano a ritornarci.
Un disperato desiderio di partire, di andare oltre il ruscello („la Tisa, il Danubio, l’Atlantico, qualunque cosa sia, solo per essere di là”) anima i personaggi dei volumi di racconti[6] di Adrian Oţoiu, indifferentemente se si tratta dei giovani cantanti rock che si sentono in Romania come in un „paese di secondo grado” in cui si è istaurata „la metastasi della speranza” o se si tratta dell’operaio che „sempre nei cantieri, si aggira per il paese da un capo all’altro; la patria ingrata – […] mi è passato per la testa di tradirla con un’altra”. Nei primi due romanzi di Florina Ilis, i personaggi sono giovani che si confrontano con il drammatico dubbio di andarsene o di rimanere nel proprio paese. Theo, il protagonista dal Coborîrea de pe cruce[7], studente presso la facoltà d’Arti, è borsista a Roma dove, tranne l’entusiasmo („vorrei avere occhi persino nelle piante dei piedi che camminano sulll’antica pietra di queste piazze”), vive anche l’ansia della scelta: „come se fossi diviso tra due desideri altrettanto forti, l’uno vorebbe che io restassi qui, che cominciassi tutto da capo e l’altro mi chiede di ritornare”. Se Theo ritorna, convinto che il suo progetto artistico è legato al paese, Matei (il personaggio del Chemarea lui Matei[8] ), un informatico presso l’Istituto di Progettazione, si prepara per la definitiva partenza: „Matei andrà in America, chiamato dalla microsoft, il sogno di ogni informatico è di lavorare presso la microsoft, soprattutto se sei dall’est e partecipi al sogno nazionale di andare in america”. Se per questi personaggi, la partenza è anche una forma dell’essere cacciati („I giovani hanno portato la libertà nel paese e adesso sono loro a dover andarsene, a doverla cercare in altri paesi, perchè le è stata rubata”), per i personaggi-bambini dal terzo romanzo di Florina Ilis, Cruciada copiilor[9], andare all’estero è il grande sogno, la vera proiezione dell’identità: „tutti sognano a non essere più romeni, ma a diventare americani canadesi europei, come opporsi a questi sogni?”.
Il fantasma della partenza sta governando l’universo romeno anche nelle opere di Petre Barbu. In Dumnezeu binecuvîntează America [10], tutti gli abitanti di una povera città lungo il Danubio (un ex centro siderurgico), sognano all’America. Le voci che le navi americane si intravedono sul Danubio mette in movimento mille persone che invadono, calpestandosi uno l’altro e prendendosi a pugni, il più alto palazzo della città perchè „una volta al secolo gli americani vengono da noi!”. Dopo qualche giorno, la rete nazionale televisiva trasmette che „gli americani che ci avevano visitati non erano stati americani, ma russi. La flotta dei russi dal Mar Mediterraneo era venuta da noi e aveva fatto delle manovre”. Infatti, la reverie americana non esclude l’osservazione (fatta da lucidi) che „non ci siamo ancora liberati dalla Siberia che c’è in noi”. Il desiderio di andarsene veste forme disperate presso i giovani. Negli spessi litigi con i genitori, come anche nelle lettere immaginarie a suo fratello (del quale si crede che sia già arrivato in America), Luiza (una ventenne, con gli studi interrotti, la cui occupazione preferita è nuotare nella sabbia – uno spettacolo attraente per i turisti stranieri) non smette di ripettere: „Non voglio più studiare qui, non voglio far nascere i miei bambini qui, non voglio più vivere in questo paese!”. Questo perchè, spiega Luiza esasperata a sua madre, „qui viviamo come migranti. Cosa pensi di fare, di restare qui fino alla fine della tua vita con gli occhi spalancati dalla finestra e di girovavagare come una pazza per le strade?”. Personaggi imparentati troviamo anche nel romanzo Blazare[11] dello stesso autore. Una famiglia operaia e la piccola rete di conoscenze (colorata da missioni civiche e politiche) vive il presente (intorno all’anno 2000) sotto l’impronta della fame che li rende molto legati al complesso alimentario di una volta. Disputato dagli abitanti del quartiere, accolto in programmi di mutuo soccorso dell’UE („Ah, quest’Unione mi ha scompigliato la vita!” – dice la madre casalinga che distribuisce esausta i presupposti pacchi provenienti dall’Europa), bramato dagli uomini d’affari locali (molti di loro ex securisti che „conducono la Romania sulla via verso l’Occidente”), e studiato dagli storici (specialisti nella storia recente e cotroversa), il Complesso si mette moto durante la notte come un „carello in un supermercato”. Accompagnato un tempo dall’esercito, affidato, poi, ai suoi fedeli, attraversando i Carpazi su una ponte di aria e divenuto un attraente punto turistico, il Complesso percorre l’intera Europa, fermandosi a Madrid dove diventa „Il Museo della Tragedia, della Disperazione e della Morte”, un’affare che „va a gonfie vele”.
Un’autentica trilogia nomade viene realizzata da Dumitru Ţepeneag nei romanzi Hotel Europa, Pont des Arts e Maramureş[12]. L’ampia costruzione epica (una narrativa in prima persona in cui il narratore è uno scrittore romeno esiliato a Parigi, avendo la nostalgia della sua lingua materna: “questa lingua screziata e stracciata”) riunisce le storie di più imigranti romeni perchè “i Romeni ai nostri giorni sono come gli italiani all’inizio del secolo” (Maramureş). Certi personaggi schizzano delle spiegazioni. Secondo lo studente Ion, “in questo paese misero e pieno di beffe” “siamo tutti dei comici nomadi”. Nel linguaggio analitico del narratore, andare all’estero è diventato “un programma per il futuro. La partenza era nella mente di questi giovani l’unica possibilità di salvarsi” (Hotel Europa). Lasciano il paese – intersecandosi ad un certo punto – studenti poveri, giovani con handicap, pittori, belle donne con spirito avventuriero, contadini dal Maramureş. Se gli ultimi pensano di ritornare dopo che avranno guadagnato (lavorando, chiedendono l’elemosina oppure prostituendosi) i soldi necessari almeno per comprarsi una macchina (“non possono tornare a mani vuote perché è vergognoso”), gli altri hanno la tentazione di rimanere il più lontano possibile – anche per sempre se c’è la fanno – da “questo paese rovinato che si riprenderà alle calende greche” (Maramureş).
La condizione nomade è una costante anche negli scritti autobiografici. Adio, adio patria mea, cu î din i, cu â din a è la testimonianza di Radu Pavel Gheo[13], uno scrittore che fa parte dalla (ancora) giovane generazione il quale, ottenendo alla lotteria il visto per emigrare negli Stati Uniti, parte in maggio 2001 e vive per un anno dall’altra parte dell’oceano. L’esperienza – emblematica per una vasta categoria degli emigranti degli ultimi anni – abbina, per Gheo, due dimensioni contrarie, la liberazione e il castigo, l’evasione e l’esilio:
„In un certo senso, è questo il Grande Passaggio, il primo e il più doloroso, perché ce ne andiamo benevolmente, anche se siamo costretti a farlo. E complicato, non è vero? Eppure, tutti si congratulano con noi per questa possibilità, come se ci liberassimo da una prigione. E complicato? No, è piuttosto triste”.
La maggior parte degli scritti autobiografici che vertono sul problema delle peregrinazioni appartiene, però, agli scrittori delle generazioni passate che hanno lasciato la Romania durante la dittatura comunista. Eccetto l’entusiasmo dei primi mesi del 1990 (subito dopo il miracolo della caduta del regime comunista), assorbito, poi, da quello che Monica Lovinescu considerava nel 1993 „il vacuo delle delusioni”[14], molti degli ex esiliati hanno dimostrato ritegno sennò timore nei confronti del rientro in paese. Ion Negoiţescu (stabilito a Köln) rimanda il tanto desiderato rientro per „timore di poter sembrare a quelli del paese un elemento straniero, nei confronti del quale viene manifestato il fenomeno del respingere”[15], Matei Călinescu confessa che il primo rientro, del marzo 1994, è stato „à contre-coeur”[16], mentre Norman Manea usa, in Întoarcerea huliganului, la difficoltà del rientro in quanto laitmotivo che oscilla, in modo sfumato, tra „non me la sentivo di visitare il Paese” e „non ero preparato per incontrare nuovamente la persona che ero stata”[17]. Lasciata la Romania durante la dettatura, per tutti questi scrittori l’esilio ha avuto un carattere definitivo, di viaggio senza la possibilità di ritornare. Se l’esilio ha corrisposto ad un’entrata nella morte („il paese stesso mi sembrava una terra del sogno e della morte, donato con tutti i caratteri dell’irrealtà; i posti, la gente lasciata là cominciarono a sembrarmi i rappresentanti di un mondo dell’al-di-là, nel più letterale senso” – scrive Ion Vianu[18]), i rientri in paese sono accompagnati, loro stessi, dall’angoscia, dall’irrealtà e dalla mancanza di aderenza di un ritorno dalla morte. Matei Călinescu vive il primo viaggio, del marzo 1994, „come una sorta di strano ritorno dai morti”, come „un’esperienza dello spettrale”[19], Norman Manea si considera – nel 1997 – „il turista della propria posterità”[20], mentre Gabriela Melinescu – rientrata in paese dalla Svezia nel 1995 – parla della „rinascita”, di un ritorno alla „prima vita” (questo è un sintagma frequente nelle confessioni degli esiliati) il quale „costituisce per me un punto irradiatore, stabile in tutto quello che sento e che penso. Una fonte dalla quale irrompono colori, odori, visi, incurabili ferite”[21]. Questi ritorni o peregrinazioni nel paese d’origine intrecciano, ma non concludono la condizione di nomade dello scrittore esiliato. „Mi sento a casa in nessun posto”, confessa Matei Călinescu in un’intervista del 2004, là dove il professore da Bloomington parla anche della percezione che l’esiliato ha di se stesso in quanto „eccezione vulnerabile” e della Romania degli ultimi anni in quanto (fascinante) „centro della sterilità, il posto dove puoi avere quest’esperienza allo stesso tempo religiosa e metafisica, che l’Ecclesiasta descrive in modo ottimo: tutto è in vano, tutto è inseguire il vento…”[22]. „Sono soltanto un povero nomade”, definisce Norman Manea se stesso prima del suo drammatico rientro, là dove si sente come uno straniero, „un intruso, nient’altro, implorando di essere ignorato”[23].
Molto più disponibile per stabilire dei legami con quelli rimasti in paese, Sanda Golopenţia li ritrova nell’intensità del dolore: „Il rientro degli esiliati è, dunque, la tacita conferma delle cicatrici interne causate dalla propria vita attraverso le cicatrici – e ferite – simili in modo triste e spesso molto più grandi, che intuisco a quelli che incontro di nuovo”[24]. In più, quelli che ritornano incontrano quelli rimasti in paese nella stessa condizione di „nomadi moderni” secondo l’espressione di Constantin Eretescu. Secondo lo stesso scrittore (esiliato negli Stati Uniti nel 1980), „il nomadismo è uno stato malsano. Grandi traumi della storia causano tale vaste contaminazioni collettive le quali ottengono l’aspetto di pandemie. Milioni di persone si mettono, a quel punto, in movimento, pervasi dalla panica dello star fermi, dal credere che le lontananze nascondino ricchezze e meraviglie che a loro si devono”[25].
Negli scritti degli autori romeni, la condizione nomade appare sennò in quanto stato malsano, certamente in quanto stato drammatico. Pochi sono quelli che, come Ion Vianu, valorificano positivamente le peregrinazioni („La scoperta dell’identità non passa forse attraverso il suo smarrimento?”[26]) oppure che, come Bogdan Suceavă, uno scrittore dalla giovane generazione stabilito negli Stati Uniti, confessino: „Non credo più nelle esperienze drammatiche dell’esilio odierno, non in quel senso lacrimogeno, dolciastro, patetico, di cui ancora sentiamo parlare a volte. Non sono il prigioniero del mio destino: posso viaggiare e posso abitare là dove desidero”[27].
La maggior parte dei romeni migratori si sentono, però, prigionieri o vittime del destino, piuttosto i protagonisti di un esodo che gli eroi dell’Odissea. Stranieri nel loro proprio paese (tanto quanto la vita qui durante la dettatura è stata considerata una forma dell’esilio interno[28]), andando in un esilio esterno il quale, per la maggior parte degli esiliati, non si è ancora concluso, conservando le ondate migratorie dopo il 1989, spinti dalla fame, dal timore, dalla delusione, dalla vacuità, portati piuttosto dall’immagine di un paese maledetto che della chimera del paradiso, i romeni sono diventati un popolo di nomadi. Gente di nessun posto, luogo preferito degli sconfitti, la letteratura offre loro un riparo.
[1] Informazione presa dal www.migratie.md
[2] Conforme a www.omf.ro
[3] Dato il fatto che, tranne le reti ufficiali, esistono le reti clandestine, le estimazioni riguardanti i migranti sono difficilmente realizzabili e aprossimative. Secondo il sociologo Dumitru Sandu, in dicembre 2001 la popolazione rurale trovatasi all’estero per lavoro rappresentava il 19%(Migraţia transnaţională a românilor din perspectiva unui recensămînt comunitar, in „Sociologie românească”, no. 3-4, 2000, p.18).
[4] Analizzando la più ampia forma (trovatasi in estensione) della migrazione romena, e cioè la migrazione circolatoria, Dumitru Sandu costata che essa ha alla base delle strategie di vita, cioè “delle strutture razionali di azione, delle relative durevoli al livello degli agenti che le adottano. La loro razionalità è conferita dall’adeguamento dei mezzi agli scopi”. Ciò che porta (tra l’altro) alla conclusione: “La migrazione temporanea all’estero appare chiaramente in quanto fenomeno di mobilità attraverso una selettività preponderante positiva. Coloro che hanno viaggiato al di là dei confini del paese […] dispongono di un ampliato capitale umano e socio-relazionale” (Dumitru Sandu, Migraţia ca strategie circulatorie de viaţă, in “Sociologie românească”, no. 2, 2000, pp. 9-25).
[5] Serge Moscovici, Juan Antonio-Pérez, Le nomadisme comme représentation sociale des Tziganes, în Psihologia socială şi Noua Europă. In honorem Adrian Neculau, volume a cura di Mihaela Iacob e Dorina Solovăstru, Iaşi, Casa Editrice Polirom, p.143.
[6] Adrian Oţoiu, Chei fierbinţi pentru ferestre moi. Carte de calculatoare pentru spirite literatoare, Piteşti, Casa Editrice Paralela 45, 1998 e Stîngăcii şi enormităţi. Carte de calculatoare pentru spirite literatoare, Piteşti, Casa Editrice Paralela 45, 1999.
[12] Dumitru Ţepeneag, Hotel Europa, Bucarest, Casa Editrice Albatros, 1996; Pont des Arts, Bucureşti, Casa Editrice Albatros, 1999; Maramureş, Cluj, Casa Editrice Dacia, 2001.
[13] Radu Pavel Gheo, Adio, adio patria mea, cu î din i, cu â din a, Iaşi, Casa Editrice Polirom, 2003.
[15] Ion Negoiţescu, M-am străduit să trăiesc căldura operelor, intervista concessa a Al. Cistelecan nel 1990 e da esso antologizzata nel volume 15 dialoguri critice, Braşov, Casa Editrice Aula, 2005, p.14.
[16] Matei Călinescu, Ion Vianu, Amintiri în dialog, seconda edizione, Iaşi, Casa Editrice Polirom, 1998, p. 292.
[22] Matei Călinescu, Un spaţiu în care densitatea zădărniciei creşte, intervista concessa ad Anca Ioan, in „Ziarul de duminică”, no.22, 4 giugno 2004, p. 1 e p. 3.
[25] Constantin Eretescu, Periscop. Mărturiile unui venetic, Bucarest, Gruppo editoriale Emco International, Casa Editrice Eminescu, 2003, p. 248.
[27] Bogdan Suceavă, Despre distanţe, risposta all’inchiesta România din vis, realizzata da Florin Lăzărescu, in „Suplimentul de cultură”, no.19, 2-8 aprile 2005, p. 10.
[28] Dell’esilio interno parla Virgil Ierunca (esiliato dal 1946 a Parigi) in un’intervista concessa nel 1990 a Octavian Paler: “Non soffro di incertezze, ma una di esse ho conservato con ostinazione: l’esistenza paralella di un doppio esilio; di quelli al-di-là dei confini (l’esilio esterno) e di quelli all’interno dei confini (l’esilio interno)” (Virgil Ierunca, Trecut-au anii…, Bucarest, Casa Editrice Humanitas, 2000, p. 353). Al denso dibattito Exilul – atunci şi acum organizzato da GDS hanno parlato di questa forma sui-generis dell’esilio due partecipanti. Andrei Oişteanu crede che l’esilio interno „abbia causato psicose, nevrosi, umiliazioni simili a volte e in quanto ampiezza altrettanto grandi e drammatiche come nel caso dell’esilio esterno”, e Adrian Niculescu considera, allo stesso modo, che „L’esilio interno sia un dramma immenso per colui che lo sta vivendo, perché si differenzia dal nostro esilio in cui avevamo libertà, il più delle volte benessere e comunque uno stato d’animo effettivamente euforico, con il morale alle stelle” (in „22”, anno XII, no. 19, 8-14 maggio 2001, pp. 8-9).