Claudio Bonvecchio
Università degli Studi dell’Insubria, Varese, Italia
bonvecch@libero.it
Caino e l’immagine del male
Cain and the Image of Evil
Abstract: Departing from well-established analyses of the biblical myth of Cain and Abel such as Domenica Mazzù’s Il complesso dell’usurpatore, this paper argues for a different understanding of the origins of power, based on the lesser-known account of the myth to be found in Jewish mythology. This particular version, in a somewhat Gnostic manner, accounts for the fratricide by emphasizing Cain’s divine filiation; thus, far from being the arbitrary victim of divine election, Cain embodies the archetype of the transcendence of power.
Keywords: Bible; Cain; Evil; Fratricide; Snake; Sin; Power.
È indiscutibile che, a partire dal XIX secolo e poi nel XX, il processo di secolarizzazione ha subito una straordinaria accelerazione, neutralizzando la dimensione del Sacro come fondamento del potere. Carl Schmitt, nella sua teoria delle neutralizzazioni-spoliticizzazioni[1], lo dimostra ampiamente, rilevando come il quarto centro di riferimento (Zentralgebiet) – quello tecnico-economico del XIX secolo – corrisponde alla totale riduzione del concetto di Dio in una sfera privata[2]. In questa prospettiva, cerchiamo di interpretare l’archetipo a cui rimanda il mito di Caino ed Abele: la lotta tra fratelli. Il riferimento è, ovviamente, il racconto del Genesi che possiamo, a buon diritto, ritenere il modello di ogni narrazione in proposito: sia perché è il più radicato nell’inconscio collettivo occidentale[3], sia perché non si differenzia particolarmente dalle pressoché analoghe narrazioni presenti in altre tradizioni religiose e mitiche[4], dove compare il tema dei fratelli nemici[5], oppure della differenza tra fratelli[6].
A tal fine, si assumere come traccia interpretativa quella formulata da Domenica Mazzù in un suo importante testo intitolato Il complesso dell’usurpatore. In questo saggio, la Mazzù indaga il principio di illegittimità. Esso, in virtù della sua struttura simbolica e della sua elaborazione onirica[7], rimanda ad un originario “complesso dell’usurpatore”, di cui il fratricidio di Caino sarebbe la chiave di comprensione. Un fratricidio che è la risposta all’angoscia di Caino, causata dall’elezione – a lui incomprensibile – di Abele da parte del Dio dell’Antico Testamento: rappresentazione simbolica del Dio-padre[8]. Sarebbe, insomma, il rapporto di Caino col numinoso – con il Dio padre-sovrano – e con l’arbitraria elezione del secondogenito Abele a delineare, per la prima volta nella storia, la figura del nemico[9] e, di conseguenza, a marcare l’irruzione della morte. L’elezione di Abele proietta, così, Caino nella sfera del non-potere, trasformando l’uguaglianza originaria tra i due fratelli in una dolorosa diversità. L’esito è l’angoscia e la violenza che daranno luogo alla morte di Abele e all’ingresso di Caino nello spazio del potere. Ma questo spazio sarà contrassegnato, costantemente, da un residuo ineliminabile: quello del potere rimosso di Abele. Anch’esso è accompagnato dall’angoscia della morte: la struttura fondamentale e costante di ogni potere. È la struttura che accomuna il detentore del potere ed il sottoposto ma, nello stesso tempo, bolla il primo con il marchio di Caino: «A partire da questa prima e fondamentale connessione, nessun detentore del potere (inteso questo, in senso lato come in senso specifico) può sottrarsi alla ripetizione attenuata – come un “vaccino”, per continuare il concetto freudiano – del trauma della morte archetipo sotto forma di angoscia della morte e/o del potere, e dunque di se stesso in quanto detentore del potere-di- dare-la morte»[10].Con ciò, Domenica Mazzù propone una fenomenologia del passaggio dallo stato primitivo dell’umanità a quello fondato su di un nuovo nomos, su di un nuovo principio d’ordine[11]. In questo passaggio, il marchio di Caino è il contrassegno del suo privilegio. È il simbolo della sua partecipazione al potere e la consacrazione del suo dominio. Ma è, anche, ciò che «stimola negli altri il desiderio segreto ed ambivalente di eliminarlo per prenderne il posto»[12]. La Mazzù coglie così un punto decisivo e che consente di accedere ad un ulteriore livello di comprensione. Si tratta della forza strutturante del mito di Caino e il suo esser simbolo della fondazione di un ordine in cui il possesso del dominio non è giustificato dal suo semplice e non-coscio esercizio, ma discende da un rapporto diretto e partecipativo con il potere. Significa l’acquisizione della coscienza di sé come partecipe del potere e, quindi, la legittimazione ad esercitare il dominio. Tale conclusione spiega – sia a livello del tempo dell’origine che di quello moderno – l’angoscia che accompagna sempre il passaggio a un nuovo e cosciente ordine e a un nuovo e cosciente dominio.
Ma il mito di Caino va ben oltre la funzione di semplice indicatore simbolico di un complesso che legherebbe potere, uomo e dominio in una sorta di malattia psichico-politica dell’umanità: un virus nascosto ed ineliminabile che circolerebbe nelle “vene” della storia. E lo stesso saggio della Mazzù lo registra quando accentua la figura del Dio-padre come un principio superordinato, unitario e totale. Ossia come l’archetipo per eccellenza della totalità, fonte del potere e in tutto e per tutto simile alla struttura del potere indicata. Infatti, la Mazzù – finalizzando il potere alla propria riproduzione strutturale[13]– ne accentua i caratteri di compiutezza, totalità ed autonomia. Caratteri questi che combaciano con quelli dell’archetipo divino. D’altronde, il tabù del silenzio posto dal testo biblico su ciò che precede l’uccisione di Abele da parte di Caino – ritenuto dalla Mazzù come indice della domanda rimossa sul padre[14] – altro non è che il contrassegno dell’indicibile presenza della totalità del numinoso. Il tabù a cui la Mazzù fa riferimento è, dunque, nell’ordine della trascendenza numinosa e perciò non può essere detto: può solo essere intuita come mysterium tremendum.
Conviene, ora, esaminare e interpretare – per quanto possibile – i tratti essenziali di questo mysterium tremendum per comprendere meglio l’archetipo che si manifesta in Caino e nel suo atto sacrificale. Bisogna, subito, puntualizzare che Caino e Abele sono da considerarsi come i proto-uomini, in quanto figli di Adamo ed Eva e non creati personalmente da dio. I loro genitori, Adamo ed Eva, non sono quindi – come accredita la tradizione del Genesi[15] – a pieno titolo i progenitori dell’umanità. Sono piuttosto due esseri, dallo statuto ontologico particolare, che formano l’anello di congiunzione tra la sfera del divino (sono stati creati dalla terra ad opera di Dio) e la sfera umana. Fin qui il racconto dell’Antico Testamento. Tuttavia, nella mitologia ebraica – che affianca e completa lo scarno ed essenziale racconto biblico[16] – vediamo affiorare altri contenuti. Uno dei più importanti riguarda il concepimento di Caino che, effettivamente, viene generato da Eva ma, a differenza di Abele, non ha come padre Adamo bensì Samaele[17]. E’ Samaele che, in forma di serpente e prima di Adamo, possiede Eva e la rende gravida[18]. Al di là di ogni scontata interpretazione freudiana, si può rilevare come questa variante mitica – ben più del racconto tradizionale – ponga l’accento sulla prossimità di Caino alla sfera numinosa: è il senso della ierogamia del padre-serpente con Eva. In chiave gnostica, questa divinità potrebbe essere considerata come il vero dio vivente, la sorgente di “Luce” e di “Vita” contrapposta a Elohim-Jaldabaoth[19].
La ierogamia del serpente con Eva segnerebbe, in questo caso, la nascita del vero Adamo (come protogenitore dell’umanità) in Caino. Questi impersonerebbe l’esito numinoso della mediazione tra il divino (il serpente simbolo dell’eterna vitalità) e l’essere-consegnato-al-mondo rappresentato da Eva: la donna. L’ascendenza numinosa di Caino è altresì comprovata – non considerando l’ambiguità della versione tradizionale del Genesi in cui Eva dice a proposito di Caino: «Ho procreato un uomo presente il Signore»[20] – da una variante mitica collaterale. Essa, senza far cenno alla nascita di Caino dal padre-serpente, ne sottolinea la natura numinosa, facendo affermare a Eva che Caino non aveva come padre Adamo bensì Dio stesso: il suo Dio, il Dio dell’Antico Testamento: «Ho avuto da Yahweh un figlio-uomo»[21]. Pur trascurando questa variante narrativa, la partecipazione di Caino alla sfera numinosa – il suo essere una figura archetipica – è comunque confermata dalla figliolanza (a lui ignota) dal dio-serpente, che rappresenta le forze vitali e il mondo dell’essere. D’altra parte, per la tradizione simbolica, l’icona del serpente raffigura, nella forma dell’uroburos, sia l’unità e la totalità della materia vivente che il segno del ri-pristinare e del ri-costruire[22]. Caino perciò, oltre ad essere simbolo di mediazione, è anche simbolo di ri-costituzione e di ri-nascita, di ritorno all’essere nella sua totalità, in quanto figlio dell’uomo e figlio di dio (il padre-serpente). Caino è così marcato da una natura ambivalente: è umano e divino, fragile e forte, maschile e femminile, signore e suddito. Di questo suo “essere così” non possiede, però, ancora piena coscienza. Egli sa unicamente di esser consegnato al mondo in cui è nato e alla fratellanza con Abele che – essendo in Adamo figlio di Elohim e non di Samaele – è un adepto della conoscenza e non della vita.
Caino, in quanto partecipe della sfera del numinoso (è figlio del serpente) è causa dell’aperta ostilità di Elohim (il falso padre) che gli rifiuta – in modo incomprensibile – l’elezione che, secondo l’ordine naturale, gli spetterebbe in quanto primogenito[23]. Elohim gli preferisce l’imbelle Abele, colui che – estraneo al luminoso – non è altro che suddito e schiavo. La preferenza di Elohim – il falso padre e il signore di questo mondo – per Abele, manifesta il timore che ha di Caino: colui che è prossimo alla terra (è nato da donna), ma che partecipa al divino flusso vitale che dalla terra promana (la figliolanza dal dio-serpente). E l’appartenenza al mondo della terra – Caino sacrifica solo prodotti della terra – è ciò che lo conferma nella sua numinosità[24]. In nome di questa numinosità, oscuramente intuita, Caino – come mostra una variante mitica del racconto vetero-testamentario[25] – sacrifica di malavoglia a Elohim, sia perché non riconosce l’obbligo di sacrificargli, sia perché si sente compartecipe del numinoso. Infatti, Caino afferma orgogliosamente: «Qui non vi è né legge né giudice!»[26] e, più oltre, rivolgendosi ad Abele «Non esiste nessuna vita eterna, nessuna ricompensa per i meritevoli, nessun castigo per i malvagi. Questo mondo non è stato creato con misericordia e non è governato dalla compassione. Perché altrimenti la tua offerta sarebbe stata accettata e la mia respinta?»[27].
Il sacrificio di Abele accettato da dio e quello respinto di Caino è ciò – e qui la tematica di René Girard sul sacrificio[28] è illuminante – che rende cosciente Caino della sua appartenenza alla sfera numinosa e del carattere negativo di Dio. È questo momento aurorale quello che determina la morte di Abele. Anzi, la morte di Abele è tutta simbolicamente contenuta nel mancato sacrificio di Caino a Dio. Per questo nel mito ebraico, subito dopo le (già citate) parole di Caino, avviene l’uccisione di Abele. Grazie al sacrificio respinto da Dio, Caino comprende – insieme alla propria natura numinosa – anche la radicale differenza con il fratello che rifiuta questa natura, a cui si sente estraneo. L’estraneità di Elohim (il falso Dio) rispetto a Caino – e sottolineata dal sacrificio rifiutato – si sovrappone alla estraneità e alla differenza di Caino rispetto al fratello che, con ciò, è assimilato a Elohim. Il rifiuto del sacrificio a Elohim-Abele – falso padre e falso fratello – richiede un altro sacrificio, un vero sacrificio: quello di cui Abele è la vittima. Il sacrificio di Abele segna, di conseguenza, il superamento simbolico, da parte di Caino – in Abele – del falso padre e la conseguente piena rivelazione della sua natura numinosa nell’ascendenza col padre-serpente. Con l’atto di dare la morte – che è atto, ad un tempo, di ribellione e di affermazione – Caino assume piena coscienza della sua partecipazione alla sfera numinosa e si re-integra nella totalità dell’archetipo primordiale. Per questo, in alcuni miti ebraici, si narra che Caino, al pari di un serpente, abbia morso Abele, procurandogli la morte[29]. In questo caso l’associazione Caino-serpente non è altro che l’avvenuta presa di coscienza di sé di Caino come partecipe del numinoso. In Caino che uccide è la vita-terra-serpente che si afferma come il principio originario da cui tutto il potere promana, tanto che, nel racconto biblico, il Dio vetero testamentario, rimproverando Caino, afferma che la terra ha bevuto il sangue di Abele, cercando di tabuizzarla per questo: «Sii tu dunque maledetto lungi dalla terra che ha aperto la bocca per bere il sangue di tuo fratello versato di tua mano»[30].
Nell’omicidio-sacrificio, Caino stringe il patto primordiale tra se stesso come proto-uomo e il Deus Absconditus: il suo vero padre. Un patto che non è mediato dalla conoscenza, ma dalla partecipazione dell’uomo-Caino alla vita: ossia al numinoso. In ciò, si coglie la pienezza di significato della morte che, innestandosi sulla vita, testimonia, ad un tempo, la finitezza della condizione umana, ma altresì la sua intrinseca luminosità. Morte e vita coincidono nell’eterno flusso vitale. La morte, per Caino, è allora la conferma ontologica del proprio esistere, concreto e finito. Dove esistere significa accettare la morte come la possibilità più propria dell’essere-consegnato-alla vita-e-al-mondo. Ma esistere significa, anche, la possibilità di dare la morte, trascendendo la contingenza del mondo e della vita nella perenne unione numinosa con l’archetipo che li esprime. Accettare la morte e dare la morte (i termini sono omologhi) come suprema possibilità è il carattere numinoso che consente la re-integrazione e la ri-costituzione dell’unità originaria. Rappresenta il potere originario. Per via di questa possibilità, il potere in Caino si fa mondo, rivelando come, solo in prossimità della morte, l’originario si manifesta. Per questo – tra i simboli del potere regale – lo scettro di grazia e di giustizia si accompagna alla spada che dà la morte, allo stesso modo in cui l’assunzione del potere passa per una morte simbolica: in quanto solo chi muore ha la potestas di dare la morte[31]. Solo chi accetta la morte e può dare la morte, è nella totalità numinosa dell’essere umano e del potere. Questa pienezza è il sigillo del marchio di Caino, segno di maledizione e di isolamento, ma segno pure di partecipazione al numinoso. Per questo Elohim non annichilisce Caino e neppure lo potrebbe fare, per la numinosità che rende quest’ultimo partecipe di un mondo superordinato e accomunato alla divinità.
Non c’è dubbio alcuno, allora, che Caino incarni – nella forma mitica e nell’ambito della tradizione ebraico-gnostico-cristiana – l’archetipo della trascendenza del potere. Un potere che, coincidendo con il potere di dare la vita e la morte, cristallizza la numinosità archetipica, manifestando e confermando, per via simbolica, il carattere metafisico del potere: d’altronde, metafisicità, intemporalità e numinosità sono le facce diverse di una unica medaglia. Parallelamente, Caino –come archetipo del potere – testimonia e conferma che la ri-costituzione di quest’ultimo non è altro che la re-integrazione di una totalità originaria e, viceversa, che la ri-costituzione della totalità non è altro che la re-integrazione della ineliminabile trascendenza del potere. Questo è dunque il nodo archetipico che lega la dimensione della pienezza esistenziale dell’uomo con la dimensione originaria del potere. Naturalmente – giova ribadirlo – l’archetipo simboleggiato da Caino, nel suo esser fonte di re-integrazione nella totalità, è, anche, causa di morte. D’altra parte, proprio di ogni archetipo è il sottrarsi a ogni ipoteca di valore, sia in senso positivo che negativo. L’archetipo è sempre una coincidentia oppositorum. Per questo, dall’effetto positivo e salvifico del mito (e dell’archetipo che ne è la base) – almeno nel significato proposto da Furio Jesi e da Karoly Kerényi[32] – non si può disgiungerne il carattere sacrificale e mortifero. Esso segna l’erompere della Urkraft, nel momento in cui l’Urwelt si sovrappone all’Umwelt (il nostro mondo), re-integrando l’Um nell’Ur.
È, quindi, del tutto congruente – a conferma di quanto qui sostenuto – l’interpretazione di Furio Jesi che legge, in chiave sacrificale e simbolico-rituale, l’uccisione degli ebrei perpetrata dai nazisti[33]. Essa sarebbe avvenuta in nome di una religione della morte che avrebbe afferrato il popolo tedesco – a partire dalla scoperta e dalla ri-scoperta dei simboli funerari bachofeniani[34] – in maniera sempre più profonda sino ad esplodere nell’epidemia antisemita. Ciò che Jesi legge in chiave di “tecnicizzazione” del mito – cioè in chiave negativa rispetto alla genuina funzione umanizzante del mito[35] – altro non è che quella manifestazione mortifero-sacrificale dell’archetipo nel suo venire alla ribalta della storia[36] e che nessuna ideologia o fede razionalista è in grado di contenere. Questa (spesso tragica) manifestazione mortifera e sacrificale è la condizione per una re-integrazione della totalità originaria dell’archetipo: come è avvenuto per il nazismo, salito al potere proprio per una drammatica inflazione archetipica. D’altra parte, la vita dell’archetipo è simile a quel letto di fiume di cui parla C. G. Jung[37] che, improvvisamente e dopo una secca secolare, ri-diventa gonfio di acque inarrestabili, travolgendo ogni argine e ogni ostacolo. Attorno a lui le barriere della storia non sono in grado di opporre difesa alcuna. Si ripropone, allora, quanto scriveva Heinrich Heine nella prima delle Notti fiorentine: «E’ facile evocare gli spiriti, ma è difficile rimandarli nel loro buio»[38]
Note
[1] Cfr. C. Schmitt, Il concetto di ‘politico’, trad. it., in Le categorie del ‘politico’, a cura di G. Miglio e P. Schiera, Il Mulino, Bologna, 1972, partic. pp. 167-183. La teoria schmittiana delle neutralizzazioni-spoliticizzazioni è la ricostruzione delle quattro fasi in cui si è sviluppato lo spirito europeo a partire dalla Riforma. Sono la fase teologica, metafisica, morale-umanitaria e economica. Esse seguono, in parallelo, la progressiva neutralizzazione dell’idea di Dio e, di conseguenza, sono da porsi in stretta correlazione con il processo di secolarizzazione.
[3] Sul rapporto tra racconto biblico ed inconscio collettivo – almeno per il mondo occidentale – C. G. Jung afferma: «Io…considero anche le affermazioni della Sacra Scrittura come espressioni dell’anima…esse passano sempre, sin dall’inizio, al di sopra del nostro livello in quanto indirizzano a realtà trascendenti alla coscienza. Questi entia sono gli archetipi dell’inconscio collettivo, che danno origine a complessi rappresentativi sotto forma di motivi mitologici» (C. G. Jung, Risposta a Giobbe, trad.it., Il Saggiatore, Milano, 1965, p. 10).
[4] Cfr. O. Rank, Il mito della nascita dell’eroe. Una interpretazione psicologica del mito, trad. it., Sugarco, Milano, 1987, pp. 58-59.
[5] Cfr. O. Rank, Il doppio, trad. it., Sugarco, Milano, 19872 pp.95-96. Anche in questo caso, esiste una rivalità, una paura di perdita di identità spesso giocata nei confronti delle donne.
[6] Cfr. D. Mazzù, Il complesso dell’usurpatore, Giuffré, Milano, 1986, part. p. 27 ss. Per una valutazione critica del lavoro della Mazzù cfr. C. Bonvecchio, Recensione a D. Mazzù, Il complesso dell’usurpatore, op. cit., in “Il politico”, LII, 1987, n. 1, p. 181 ss.
[9] Sul concetto di amico/nemico il riferimento d’obbligo è C. Schmitt, Il concetto di ‘politico’, op. cit., p. 108 ss.
[15] «Genealogia di Adamo. Quando Iddio creò l’uomo, lo fece a somiglianza di Dio; li creò maschio e femmina, li benedì e quando furono creati li chiamò uomo» (Genesi, 5, 1-2)
[17] L’angelo Samaele è “Satana” (nemico). Samaele che, nella tradizione biblica significa “veleno di dio”, probabilmente si rifà ad una divinità siriaca: Shemal. Samaele, in quanto “Satana” è identificato con Lucifero (Helel), l’angelo caduto. Alcuni ancora sovrappongono la figura biblica di Lucifero al “Demiurgo” gnostico.
[19] In questa direzione, in un importante testo gnostico – Origine del mondo – l’immagine “classica” del tentatore (il serpente biblico, colui che è chiamato “la bestia”) è quello che, rispetto agli arconti capeggiati dall’Archigenitor (Jaldabaoth), possiede la sapienza: è l’istruttore (cfr. Origine del mondo in La gnosi e il mondo. Raccolta di testi gnostici, a cura di L. Moraldi, TEA, Miulano, 19882, pp. 99-100). L’istruttore è l’Androgino (o Ermafrodito), icona della totalità dell’uomo sul piano del divino. Egli, sempre secondo il sapere gnostico, è figlio dell’emissione di una goccia di luce da Sofia e della sua proiezione sull’acqua. E’ l’Adamo psichico (cfr. op. cit., pp. 94-95). Il compito dell’istruttore è insegnare «l’inizio della gnosi sulla terra, che perciò per la sua stessa origine è segnata come opposizione al mondo e al suo Dio, e invero come una forma di ribellione» (H. Jonas, Lo gnosticismo, trad. it., SEI, Torino,1973, p. 109).
[22] Uno degli aspetti della liberazione e del passaggio all’unità primordiale viene espresso – in una direzione per molti versi vicina a quella della presente interpretazione del serpente come archetipo numinoso della totalità del flusso vitale – nello hathayoga con la kundalinî. Essa viene descritta, per l’appunto, sotto forma di un serpente, di una dea e di una energia (Cfr. M. Eliade, Lo yoga. Immortalità e libertà, trad. it., Sansoni, Firenze, 1982, p. 232 e ss).
[24] Certamente, sono possibili e plausibili altre interpretazioni, come quelle che leggono le vicende di Caino e Abele in chiave di scontro tra tribù nomadi e stanziali. Anche altre varianti mitiche vanno in questa direzione (cfr. R. Graves, R. Patai, I miti ebraici, op. cit., nota 1, pp. 116-117).
[31] Basta pensare, a questo proposito, ai riti di passaggio connessi con l’assunzione al potere di capi o di re. Tali rituali o cerimonie di intronizzazione o di incoronazione – come afferma Arnold Van Gennep – sono del tutto simili a quelle dell’ordinazione sacerdotale o dell’iniziazione dei maghi. Esse prevedono una morte simbolica ed una successiva rinascita alla pienezza del nuovo status (cfr. A. Van Gennep, I riti di passaggio, trad. it., Boringhieri, Torino, 19883, pp.89-97). Sulla regalità, invece, come sostituto simbolico della vittima espiatoria cfr. R. Girard, La violenza e il sacro, op. cit., p. 151 ss. Un interessante studio che, tra l’altro, connette forme di violenza con le cerimonie di incoronazione e di detronizzazione è quello – contestualizzato nell’Europa medioevale e moderna – di Sergio Bertelli (Il corpo del re. Sacralità del potere nell’Europa medioevale e moderna, Firenze, Ponte alle Grazie, 1990, partic. parte prima cap. II e parte seconda cap. I e II).
[32] Sul concetto di mito “genuino” (e quindi, interpretando Jesi, dell’archetipo) come fattore positivo di un rinnovato umanesimo cfr. F. Jesi, Germania segreta, Silva, Milano, 1967, p. 7 ss. Jesi, a sua volta, si richiama a un celebre testo di Karoly Kerényi: Dal mito genuino al mito tecnicizzato in Atti del colloquio internazionale su “Tecnica e casistica”, Istituto di Studi filosofici, Roma, 1964, pp. 153-168.
[35] Furio Jesi ritiene che il mito”tecnicizzato” sia l’uso, in senso strumentale, del mito evocato dall’uomo e non sgorgato spontaneamente (cfr. Germania segreta, op. cit.). Ciò darebbe luogo ad effetti quasi sempre disastrosi. Jesi, in ultima analisi, rifiuta, illuministicamente, che nel mito qua talis, sia presente una componente originaria negativa, violenta o mortifera che sia. Cosa questa che invece contraddistingue, per Jesi, il mito “tecnicizzato”.
[36] Naturalmente, l’archetipo si affaccia alla ribalta della storia quando nulla è più in grado di tenerne a freno la potenza inconscia: come è avvenuto nella Germania pre-nazista, devastata da una tremenda crisi di identità.